Intervista a cura di Francesco D’Ancona e Federica Scuotto
La giornalista e vicedirettrice del TG5: «il contrasto non è tra libertà di espressione e diritto all’informazione, ma tra essere un cittadino libero o un suddito poco consapevole»
In un’epoca in cui la libertà di stampa viene messa in discussione da tensioni politiche, disinformazione e derive autoritarie, la voce di Cesara Buonamici, storica conduttrice e vicedirettrice del TG5, si leva a difesa di un diritto che non può mai essere dato per scontato. Intervistata dagli studenti della Laurea magistrale in Editoria e scrittura della Sapienza, la giornalista riflette sui valori della libertà di stampa e di espressione e sull’urgenza di un giornalismo consapevole, fondato sulla coscienza professionale e sulla responsabilità collettiva.
Pensa che l’attacco in corso alla libertà di stampa e di espressione in Italia e nel mondo renda questi due diritti più a rischio rispetto al passato?
«Innanzitutto la libertà non è un termine onnicomprensivo, è meglio parlare delle libertà. La questione è delicata: le libertà non sono mai un dato acquisito, perché non sono definitive, e anzi sono una condizione di equilibrio, fatta di valori, di convinzioni, di convenienze, di opportunità perennemente in contrasto, ma anche di compensazioni reciproche. Nel corso dei decenni, qui ma anche altrove, le libertà si sono espanse, hanno guadagnato spazi. Venivamo da periodi difficili, ricchi di dittature, di guerre enormi, e poi di liberazione da ogni tipo di costrizioni. Ma, come avviene nei cicli storici, si nota una certa vocazione al riflusso, frutto anche della memoria storica che si indebolisce e vecchie ricette si presentano come nuove. Una delle prime è il tentativo di ridurre la libertà di espressione e quindi anche dell’informazione. Quando si fa un colpo di stato, subito dopo i centri di potere, si occupano giornali, radio e tv. L’unica soluzione è stare attenti che, seppure in un clima che può sembrare peggiorato, le soglie essenziali non vengano superate. È un lavoro collettivo, non per singoli».
Come dovrebbe comportarsi un giornalista se la libertà di stampa e di espressione fossero compromesse?
«Diceva Don Abbondio: «Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare». E per questo non bastano i gesti singoli, ma come in ogni mestiere c’è bisogno di una forza collettiva, la cui prima fonte è la coscienza professionale. Non si tratta di pensarla tutti allo stesso modo, perché la forza e la libertà risiedono nella diversità, non nella omogeneità. Ecco cosa si può e si deve fare. Agire sempre con coscienza, cercando di capire e spiegare quel che ci circonda al di là delle nostre simpatie o convinzioni. E questo senza perdere la propria idea o la propria identità. Oltre a delle competenze professionali, serve una coscienza onesta».
Per lei la libertà di espressione e il diritto a un’informazione corretta vanno sempre di pari passo o possono porsi in antitesi? I nuovi media stanno portando un cambiamento a riguardo?
«Diciamo di sì, perché se c’è libertà di espressione, la conseguenza è la garanzia al diritto di informazione. Ma non è un sillogismo garantito. I singoli devono avere passione di capire e informarsi. Bisogna continuare sempre a istruirsi, oltre la scuola o l’università. Non bisogna affidarsi solo alle idee che avevamo: ci dobbiamo sempre chiedere se fossero giuste e per rispondere ci si deve informare senza tifoseria, ma con spirito libero. Ma la libertà e la sua ricerca sono attività faticose che richiedono allenamento continuo. Quindi il contrasto non è tra libertà di espressione e diritto all’informazione, ma tra essere un cittadino libero o un suddito poco