Cristina Di Silvio

La Pontificia Università Antonianum di Roma ha ospitato il Congresso Mondiale sulla Democrazia e il Dialogo Interculturale. Un evento straordinario che raccoglie leader internazionali, esperti di cybersecurity e promotori della pace per discutere su come costruire un futuro migliore e sicuro per tutti.

E’ intervenuta al Congresso Cristina Di Silvio, la cui carriera si distingue per l’impegno costante in ambito istituzionale, giuridico e sociale, con una particolare attenzione alla promozione della pace, della giustizia e dello sviluppo sostenibile. Cristina Di Silvio è Direttore degli Affari Legali e del Rispetto dei Trattati presso il GOEDFA – Global Economic Development Fund Association, Responsabile Relazioni Internazionali dell’Union des Avocats Européens (U.A.E.), Direttore delle Relazioni Internazionali per la Comunità Europea presso lo United States Foreign Trade Institute (USFTI) e Consigliere Giuridico dell’Istituto Internazionale per le Relazioni Diplomatiche – Commissione per i Diritti dell’Uomo – Dipartimento Affari Economici e Sociali delle Nazioni Unite, incarico equiparato a quello di Vice Console e ricopre per l’ISECS (International Social Economic Cultural Society) il ruolo di Ambasciatrice per Malta.

Riportiamo a seguire il suo intervento.

“Nel 2024, l’Italia è scesa al 46° posto nel World Press Freedom Index di Reporters Without Borders, segnando un regresso preoccupante nel panorama della libertà di stampa. Ma al di là del dato statistico, ciò che emerge è un quadro allarmante di compressione del diritto all’informazione, schiacciato tra pressioni interne, dinamiche internazionali e un mondo che, sempre più spesso, sceglie di non vedere. Soprattutto quando a pagare il prezzo del silenzio sono i più vulnerabili: i bambini e le donne.

L’attacco alla libertà di stampa: dall’Italia all’algoritmo globale. In Italia, il giornalismo si confronta oggi con ostacoli sempre più stringenti. La cosiddetta “legge bavaglio”, che limita la pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare fino al termine dell’udienza preliminare, è solo uno dei segnali più evidenti di una strategia che mira a limitare il diritto di cronaca. L’Ordine dei Giornalisti e Amnesty International hanno denunciato come queste norme riducano la trasparenza e indeboliscano il rapporto tra cittadini e giustizia. A ciò si aggiunge la crescente politicizzazione della Rai, la televisione pubblica italiana, che preoccupa anche le istituzioni europee. Licenziamenti improvvisi, ristrutturazioni editoriali selettive e la rimozione di contenuti considerati scomodi stanno lentamente trasformando il servizio pubblico in un mezzo sempre più allineato, sempre meno pluralista. In questo contesto, l’autocensura diventa una strategia di sopravvivenza, e la diversità informativa, un’eccezione.

La narrazione unica e la censura geopolitica. A livello globale, la libertà d’informazione è ostaggio di una narrazione geopolitica dominante. Il conflitto in Ucraina è stato raccontato dai media occidentali – italiani inclusi – secondo un’ottica fortemente euro-atlantica. Voci fuori dal coro, anche quelle di esperti o studiosi indipendenti, sono spesso marginalizzate o liquidate come “filorusse” o “complottiste”. Un meccanismo simile si osserva nelle relazioni con la Cina, con Israele o con i Paesi del Sud globale. Quando la realtà non si adatta alla narrazione ufficiale, viene riformulata, ignorata o silenziata.

Gaza: l’infanzia martoriata sotto le bombe.Poche tragedie contemporanee rendono più evidente questa censura selettiva della guerra in corso a Gaza. Secondo l’UNICEF, oltre 14.000 bambini sono stati uccisi tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania in un solo anno. Le immagini di piccoli corpi estratti dalle macerie, le urla delle madri, le scuole e gli ospedali ridotti in polvere, raccontano un orrore che troppo spesso viene filtrato, oscurato o semplicemente ignorato dai grandi canali informativi. Un’inchiesta della BBC ha rivelato che Meta ha ridotto fino al 77% la visibilità dei contenuti provenienti da fonti palestinesi, mentre quelli israeliani sono cresciuti del 37%. Apple e Google, su richiesta del governo israeliano, hanno disattivato i servizi di geolocalizzazione a Gaza, privando i civili di uno strumento essenziale per evitare i bombardamenti. In questo contesto, la censura non è solo un fatto politico: è una strategia tecnologica, algoritmica, sofisticata. È shadow banning, è rimozione selettiva, è silenziamento digitale di intere popolazioni che cercano solo di far sentire la propria voce.

Afghanistan: donne cancellate dalla società.A migliaia di chilometri da Gaza, un’altra tragedia si consuma nell’indifferenza del mondo: quella delle donne afghane. Dal ritorno dei talebani al potere, le afghane sono state estromesse dalla vita pubblica, escluse dal lavoro, dall’istruzione, dai luoghi di socialità. Le bambine non possono più andare a scuola oltre la sesta elementare. Le donne non possono uscire di casa se non accompagnate da un uomo. E le ONG che impiegano personale femminile sono state costrette a chiudere, lasciando milioni di persone senza assistenza. È una forma di apartheid di genere, che si consuma ogni giorno nel silenzio, nell’oscurità, nella disperazione. Non ci sono bombe, ma c’è un’altra forma di violenza: quella dell’annientamento dell’identità, della dignità, della speranza.

Il silenzio come complice.Gaza e Afghanistan sono due ferite aperte della coscienza globale. Due luoghi dove il diritto all’informazione, alla vita, alla libertà viene quotidianamente negato. Due scenari che, pur lontani tra loro, condividono lo stesso destino: l’indifferenza. L’indifferenza di un mondo che si dice connesso, ma che spegne il segnale quando la verità disturba. L’indifferenza di media che selezionano cosa mostrare e cosa nascondere, trasformando la realtà in una narrazione comodamente digeribile. Difendere oggi la libertà di stampa non significa solo proteggere i giornalisti. Significa difendere il diritto alla verità dei bambini di Gaza, il futuro negato delle bambine afghane, la voce soffocata di chi non ha più nulla se non il dolore. Significa resistere a un sistema informativo sempre più orientato alla semplificazione e alla propaganda. Perché la libertà d’informazione non muore all’improvviso. Muore lentamente, tra una rimozione algoritmica, una denuncia intimidatoria, un microfono spento. E con essa muore un pezzo della nostra umanità”.

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