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La stagione delle primarie è stata dura. Ma i protagonisti lo sanno che il peggio deve ancora venire: è disseminata di trappole, la strada di qui all’Election Day di Hillary Clinton e Donald Trump, già sicuri delle loro nomination democratica e repubblicana alla Casa Bianca – la ratifica ufficiale e formale verrà dalle rispettive convention, nella terza decade di luglio, a Cleveland e a Filadelfia -. Fatica, stress e soldi a parte, da un momento all’altro imbarazzi o scandali potrebbero riemergere e sbarrare loro la strada, a prescindere dagli errori che l’una e l’altro potranno fare in campagna: ostacoli a loro noti, perché appartengono al loro passato, ma proprio per questo non più eliminabili.

Con due personaggi dalle storie così lunghe e così ingombranti, la stampa americana è già scatenata alla ricerca di scheletri nell’armadio che, dopo le convention, sarebbero devastanti per i candidati, ma anche per i loro partiti, perché ci sarebbe ben poco tempo per allestire una strategia di controllo dei danni o per approntare delle alternative. Ogni giorno, di qui all’8 Novembre, è una lotteria.

Le voci a rischio per Hillary sono l’emailgate, la strage di Bengasi, i fondi alla Fondazione Clinton, le retribuzioni dei suoi discorsi a Wall Street, le storie di Bill. Quelle per Trump sono le inchieste sulla sua Università, le bancherotte del passato, le dichiarazioni dei redditi, i rapporti con le donne.

Due ostacoli, Hillary parrebbe esserseli tolti di dosso: l’emailgate e Bengasi. L’Fbi ha appena concluso l’indagine sull’uso di server di posta elettronica privati quando era segretario di Stato, biasimandola per l’“estrema negligenza”, ma non chiedendone l’incriminazione. E la commissione d’inchiesta della Camera sulla strage in Libia nel settembre del 2012, quando furono uccisi l’ambasciatore degli Usa Chris Stevens e altri tre cittadini americani, ha speso sette milioni di dollari e due anni di tempo per concludere che l’allora segretario di Stato non fu responsabile di quelle morti.

La tempistica e le modalità del ‘proscioglimento’ di Hillary nell’emailgate e la mancanza a Bengasi di adeguata protezione militare americana lasciano, tuttavia, spiragli alle critiche repubblicane: c’è da scommettersi che i due argomenti saranno sfruttati per tutta la campagna, anche se, come trappole, appaiono relativamente disinnescate.

Resta, invece, aperta un’altra noiosa inchiesta dell’Fbi sulle donazioni fatte da Paesi od enti esteri alla Fondazione Clinton, mentre Hillary era segretario di Stato – pagamenti di favori ricevuti?, o caparre per favori da ricevere? -. Ed è sempre dolente il tasto, su cui molto batteva Bernie Sanders, il rivale democratico, dell’entità dei compensi, mai svelata, per i discorsi fatti a Wall Street. Ma l’insidia forse maggiore viene da Bill, il marito: vecchie fiamme alla ricerca di nuova pubblicità; o nuove gaffes, come l’inopportuno incontro in un aeroporto dell’Arizona – una roba quasi da tresca – con il segretario alla Giustizia Loretta Lynch, a indagine dell’Fbi sull’emailgate ancora aperta.

Trump non è messo meglio. Anzi, è probabilmente messo peggio. Ma ha la faccia tosta d’un baro e la capacità d’incassare i colpi d’un pugile. Il guaio più grosso sono le inchieste avviate a New York e a San Diego sulla sua Università, che vendeva ad alto prezzo corsi scadenti per avere successo nell’immobiliare: i procedimenti dovrebbero iniziare dopo l’Election Day, ma la spada di Damocle incombe (tanto più che lo showman se l’è presa con il giudice della California perché ispanico). Poi ci sono le vecchie storie di alcune sue fallimentari attività imprenditoriali, i casino di Atlantic City e la compagnia aerea, che intaccano il mito dell’uomo d’affari di successo.

La questione su cui i democratici potrebbero però ‘rosolare’ l’avversario è la dichiarazione fiscale che il magnate non tira fuori – non ne ha l’obbligo, ma c’è la prassi di farlo -. E il candidato 2012, Mitt Romney, va dicendo che lì dentro potrebbero esserci “notizie bomba”. La stampa britannica, intanto, gli ha già scoperto magagne con il fisco.

Infine, ci sono i rapporti con le donne, su cui il NYT ha pubblicato un documentato dossier, e la scia di polemiche con ispanici, musulmani, handicappati, donne, giornalisti, fino ai sospetti di contiguità con il Ku Klux Klan ed altri gruppi razzisti. Nulla di tutto ciò l’ha finora fermato, ma una trappola fra tante può sempre scattare.

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È attualmente consigliere per la comunicazione dell’Istituto Affari Internazionali; collabora con vari media (periodici, quotidiani, radio, tv) e con l’Unione europea; gestisce il sito GpNewsUsa2016.eu; tiene corsi in Università e scuole di giornalismo. Inizia l’attività giornalistica a “La Provincia Pavese” nel 1972. Dal 1976 al ’79 è alla “Gazzetta del Popolo” di Torino, per la quale nel 1979 apre l’ufficio di corrispondenza a Bruxelles. Nel 1980 passa all’Ufficio dell’Ansa di Bruxelles di cui diventa responsabile nel 1984. Segue per dieci anni la Cee e la Nato. Nel 1989 è a Roma: caporedattore Esteri, caporedattore centrale Esteri, vide-direttore. Nel 1992 è tra i fondatori dello European Press Club, di cui è tuttora segretario generale. Nel 1999 va a guidare l’ufficio Ansa di Parigi e nel 2000 diviene responsabile dell’ufficio di Washington e del Nord America. Dal dicembre 2006 al giugno 2009 dirige l’Ansa. Dopo è successivamente direttore de l'AgenceEurope, di EurActiv.it e vice-direttore de La Presse.