Non è chiaro se i tweet di Donald Trump riproducano esattamente le sue frasi o se le sue frasi siano prima pensate come tweet. Ma la simbiosi, in questa lunghissima campagna per #Usa2016, è totale.

L’ultima battuta, divenuta virale, il battistrada nella corsa alla nomination repubblicana l’ha detta dopo il largo successo, la scorsa settimana, nelle assemblee del Nevada: “I love the poorly educated”, amo gli ignoranti (che, del resto, lo ricambiano). E ha innescato il solito dibattito tra chi se ne sente offeso – anche se, stavolta, i termini usati, se non proprio il concetto espresso, erano politicamente corretti – e chi invece accusa chi s’offende per porre le parole fuori del contesto. Che era quello d’un discorso della vittoria: “Abbiamo conquistato i giovani, abbiamo conquistato gli anziani, abbiamo conquistato le persone con un’alta educazione, abbiamo conquistato gli ignoranti. Io amo gli ignoranti”, ha scandito il magnate dell’immobiliare.

Quel messaggio, traslato su Twitter, è stata rilanciato, citato, contestato freneticamente: 15 volte al minuto, secondo operatori che monitorano i social media. Sono pure comparsi utenti di Twitter che si autoproclamano “poorly educated”, ma che non amano lo showman perché lo ritengono una minaccia o un motivo di forte imbarazzo per gli Stati Uniti.

David Waywell, un giornalista britannico che segue la campagna di Trump su Youtube e Twitter, accompagnandolo ovunque senza mai allontanarsi dalla propria scrivania o dalla propria poltrona – tutti gli eventi sono online live -, notava come Trump, che non è un ragazzino (69 anni, uno in più di Hillary Clinton), abbia saputo usare i social media molto meglio di tutti i suoi rivali e pure meglio di quanto non fece nel 2008 Barack Obama, che fu però maestro finora ineguagliato nella raccolta di fondi online – ma Trump di misurarsi su questo terreno non ha bisogno -.

Quello che contraddistingue i tweet di Trump è il carattere tagliente, insolente, sanguigno, eccessivo, talora offensivo o insultante. Tutto il contrario dei tweet di Hillary che sono precisi, quadrati, composti, ricchi di contenuto, talora pure ironici, ma sostanzialmente noiosi, se confrontati con quelli di Donald. Tutto nella campagna di Trump è concepito a misura di tweet, pure gli slogan, a cominciare da “Rifaremo grande l’America”, “Vivi libero o muori”, “Leadership competente”; e persino le battute sui palchi dei comizi o dei dibattiti in diretta televisiva, dove fa valere l’esperienza di showman: le battutacce che hanno ‘azzerato’ Jeb Bush, i messicani “delinquenti e stupratori”, le giornaliste impertinenti “che hanno il sangue agli occhi e non solo”.

Insomma, i successi dello showman sono anche merito di Twitter. O, piuttosto, colpa?

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Giampiero Gramaglia
Giornalista, collabora con vari media (periodici, quotidiani, siti, radio, tv), dopo avere lavorato per trent'anni all'ANSA, di cui è stato direttore dal 2006 al 2009. Dirige i corsi e le testate della scuola di giornalismo di Urbino e tiene corsi di giornalismo alla Sapienza.