Intervista a cura di Ilaria Annunziata, Giorgia Bovio, Laura Cecchinato
In occasione della giornata mondiale della libertà di stampa del 3 maggio, abbiamo posto a Ferruccio de Bortoli alcune domande sulla situazione e l’evoluzione della libertà di espressione e di stampa.
Due volte direttore del Corriere della Sera dal 1997 al 2003 e dal 2009 al 2015, e del Sole 24 Ore dal 2005 al 2009, de Bortoli è attualmente presidente dell’Associazione Vidas di Milano e della casa editrice Longanesi. Rispondendoci, ha delineato il profilo di quello che considera un buon giornalista nelle condizioni sociali e politiche attuali.
Iniziamo subito con il chiederle: secondo lei oggi c’è un rischio di diminuzione della libertà di espressione, di informazione e di stampa?
Il rischio c’è ed è reale, ma bisogna avere ben chiari quali sono gli aspetti fondamentali della questione. In Europa il concetto di libertà di espressione poggia su una serie di basi giuridiche per le quali essa si esercita nella responsabilità di ciò che si scrive, questo anche nel rispetto di altri diritti soggettivi, che a volte le sembrano contrapposti.
Le regole rimangono fondamentali a prevenire quella “giungla” che, soprattutto nella deriva americana a cui stiamo assistendo, finisce per trasformare il “free speech” nella voce del più forte – di chi cambia anche i fatti se non corrispondono alle proprie opinioni.
Per cui ritengo assolutamente necessario difendere la legislazione europea, tutt’altro che liberticida dal momento che il diritto d’espressione non può non tenere conto di altri diritti: si tratta di combattere il linguaggio d’odio, di tutelare le minoranze, senza che tuttavia il rispetto dei diritti faccia venire meno la libertà d’espressione.
Quali possono essere, secondo lei, degli episodi concreti, soprattutto nel contesto italiano, che avvallano questa sua percezione?
Sicuramente la tendenza a comandare anziché governare.
Se ci limitiamo a leggere il primo articolo della nostra Costituzione, potremmo essere portati a pensare che chi viene legittimamente eletto al governo possa esercitare le leggi a suo piacimento.
Al contrario, chi vince le elezioni ha il potere di gestire solo temporaneamente le istituzioni, e sempre nel rispetto delle libertà e delle opposizioni.
Confondere questi due verbi è già una forma di autoritarismo, in cui le critiche legittime al governo e qualsiasi altra forma di dissenso finiscono per essere silenziate in quanto “attentato alla nazione”.
Anche additare automaticamente come “parte di un’opposizione” chi esprime delle critiche costituisce una forma di limitazione.
Questo succede per esempio nel giornalismo, dove si dovrebbe essere liberi di indagare anche i fatti che riguardano chi sta al governo, senza ripercussioni.
Del resto, senza discussione non prevalgono le scelte migliori ma quelle di chi ha più potere di imporle.
Nella sua opinione cosa potrebbero fare attivamente i giornalisti per cercare di arginare o proprio ribaltare questa situazione?
Devono semplicemente fare il loro mestiere, non avere paura di pagare un prezzo. Non penso che sia necessaria una vera e propria mobilizzazione della categoria perché avrebbe un significato corporativo – e tutto ciò che è corporativo spesso è negativo – ma piuttosto un’iniezione di coraggio nei giornalisti, costantemente oggetto di querele temerarie che possono costituire un’arretratezza del nostro paese nell’indice della libertà di stampa.
Io stesso, nonostante sia in pensione da dieci anni, sono ancora coinvolto in cause civili e penali.
Si tratta di forme di intimidazione nei confronti soprattutto dei giornalisti più giovani, che stanno in testate più fragili, indotte a non disturbare chi comanda.
Se abbiamo una funzione civile in una democrazia è quella di far sì che l’opinione pubblica non sia formata da un insieme di “curve di tifosi”, ma da cittadini correttamente informati che abbiano la libertà di scegliere con spirito critico e beneficio del dubbio.
Secondo lei esiste un’antitesi fra la libertà d’espressione e il diritto ad un’informazione corretta?
La libertà d’espressione si accompagna alle regole: senza regole non c’è responsabilità, né libertà d’espressione, ma soltanto l’arbitrio di costruire la verità che si pensa sia la più funzionale all’esercizio di un potere di qualsiasi natura.
E’ chiaro che ci debba essere una serie di norme che fanno sì che il cittadino sia correttamente informato, cosa che naturalmente passa anche attraverso la deontologia e la responsabilità dei giornalisti – quella, per esempio, di ammettere gli errori che si commettono.
Penso ad esempio a quelle imprese di informazione che in virtù del proprio prestigio, si sentono in dovere di correggersi, di ristabilire un po’ di memoria: si tratta della responsabilità di far sì che questa non sia distorta, che le persone non siano per sempre prigioniere di ciò che hanno commesso.
Il tema del diritto dell’oblio è un diritto europeo; tuttavia bisognerebbe interrogarsi sul perché sia stato sfruttato meglio dai regimi autoritari per iscrivere la storia ad uso e piacimento della gestione del potere contemporaneo.
Lei ha esperienza sia come giornalista che come direttore; se in ambito giornalistico potrebbe essersi sentito in qualche modo limitato nella propria libertà d’espressione, nel ruolo di direttore potrebbe invece aver dovuto imporre linee guida che può aver trovato limitanti. Si riconosce in una di queste circostanze?
Penso che un giornale possa e debba avere delle linee guida, delle opinioni, ma non può pretendere che queste smentiscano o cambino i fatti.
Purtroppo ci sono stati momenti nella storia del giornale in cui questo principio primario non è stato rispettato.
Un bravo giornalista dovrebbe ammettere ciò che di sbagliato ha commesso, e tutti coloro che partecipano alla catena dell’informazione – da chi l’informazione la fa a chi la trasmette ai media – dovrebbero avere l’onestà intellettuale di ricostruire a posteriori ciò che è stato raccontato. Un buon giornalismo si costruisce su un costante senso critico.